Vengo dall’Italia e da piccolo ho trascorso un periodo in affido e uno in comunità, complessivamente di 11 anni. Ho avuto mio figlio a 34 anni.

Cosa significa per te essere genitore?

Essere genitore secondo me ha a che fare con la sensibilità di ciascuno e ognuno può sentirsi genitore in tanti modi diversi. Penso che significhi saper dialogare con la complessità e che i fallimenti secondo me arrivano proprio dall’incapacità di saper dialogare, dal voler controllare a tutti i costi. Ad esempio io mi chiedo spesso se devo responsabilizzare mio figlio o limitarlo e non c’è una risposta. È necessario interrogarsi e mettersi in discussione sempre. Io non credo che sia giusto essere troppo paternalistici, che tutto si può spiegare ad un bambino, poi ci sono alcune cose che forse non può capire, però questo dialogo dev’essere costante. 

Pensi che le esperienze vissute nel corso dell’infanzia influenzino il tuo modo di essere genitore?  

Si impara molto dall’infanzia, dal modo in cui siamo stati trattati, però questo è un rischio secondo me. Nel senso che si rischia di confondersi con la persona che si ha davanti, anche se i tempi sono diversi, i modi sono diversi, le persone sono diverse. Io credo che questo rischio sia alto, anche se nel mio caso mi ha aiutato tanto il mio essere educatore, in quanto mi sono allenato a pensare le persone, e anche mio figlio, come diversi da me. Ma significa che è necessario un grosso lavoro su di sè.

Quale sostegno ricevi o hai ricevuto da professionisti nel tuo ruolo di genitore? 

Voglio precisare che la comunità in cui sono cresciuto era a conduzione familiare: c’era una figura di riferimento stabile e poi delle figure che ruotavano. Per il tipo di persona che sono, questo è un grosso vantaggio e penso che la dimostrazione più importante di queste persone sia stata legata al saper ascoltare. E questo per me ha anche significato sentirmi legittimato per come ero io come persona, invece di essere giudicato o bloccato. Questo ha un ruolo oggi nel mio ruolo di papa: penso che sia il motivo per cui mio figlio chiacchiera molto volentieri con me. 

Quale sostegno ricevi o hai ricevuto da amici, familiari o persone della comunità? 

Penso che le persone che ho attorno non siano in grado di supportarmi nel riconoscere quello che sto facendo come papà, mi fanno sentire strano nelle scelte che faccio. Poi a volte succedono dei miracoli. Ad esempio mio suocero ci ha regalato un garage e io ho deciso di fare uno studio di pittura e scrittura e lui ha sostenuto il mio progetto. Quel momento lì è stato un riconoscere, lo sforzo c’è stato di apprezzare il mio essere padre e voler creare uno spazio con mio figlio. Questo riconoscimento è importantissimo nel mio ruolo di papà.  

Guardando indietro, che cosa è stato utile o meno rispetto al tuo ruolo di genitore?  

Quello che è stato importantissimo è stato avere accanto delle persone che se ne fregavano di quello che doveva essere fatto, ma che facevano quello che ritenevano andasse fatto. Nelle comunità di oggi c’è una tendenza a classificare e catalogare i ragazzi più problematici, associando i loro comportamenti problematici a qualche patologia, quando invece si tratta semplicemente di “tirare fuori il proprio vissuto”.  Credo che questo capiti perché molti educatori si siano dimenticati il loro mandato. Ma per fortuna non è così per tutti. Nella comunità in cui sono stato ho creato dei problemi, ma mi sono sentito legittimato. Suor Anna mi diceva «tu avevi bisogno di tirar fuori questa rabbia». Non siamo mai stati colpevolizzati, non l’hanno mai fatta pesare su di noi, come per dire «siete sbagliati o siete matti». Hanno saputo portare pazienza con fiducia. 

Quale sostegno/aiuto avresti volute/vorresti?  

Io credo che tutti abbiano bisogno di support, perché si stanno creando delle condizioni di vita che sono inaccettabili per persone normali. Questo dipende anche da una rete che non esiste. Poi può essere anche un po’ ingabbiante la rete, può darti delle limitazioni. Però questo questo microcosmo familiar non riesce in alcun modo a sollevare almeno un po della responsabilità. Magari non saresti completamente libero nelle scelte, ma neanche completamente responsabile. Invece in questo modo qua, essendo lasciati tutti un po da soli, non ci sentiamo sollevati minimamente. Se sbaglio, sbaglio io e se facci bene, facciao bene io. 

E poi posso consigliare un percorso di terapia a tutti quanti, anche questa è una cosa da legittimare. Perché tante persone ormai lo sanno che non non è un delitto fare terapia o appoggiarsi a dei farmaci se se ne ha bisogno. Ognuno ha bisogno di una boa a cui aggrapparsi per rimanere a galla, perché nuotare in mare aperto dopo un po è stancante. Questa boa ognuno se la trova e se la costruisce e in un determinato momento della sua vita e forse un po più di comprensione per le boe che ciascuno di noi trova, non guasterebbe. 

Quali consigli daresti a professionisti, organizzazioni o governi per rendere la genitorialità un’esperienza positiva per i futuri giovani con esperienza “fuori famiglia”? 

Io credo che sia importante parlare di questi temi, della nostro esperienza di genitori. E che bisogna continuare a parlarne, anzi iniziare a parlarne, magari prendendo spunto proprio dalla ricerca che state portando avanti.

Questo blog fa parte della nostra conferenza ExChange, “Ci vuole un villaggio: prospettive globali sui genitori con esperienza nella cura”

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